Nel cuore di una rivoluzione tecnologica che sta trasformando radicalmente la medicina, la neurochirurgia si trova all’avanguardia di questo cambiamento. Realtà virtuale, intelligenza artificiale e robotica non sono più concetti futuristici, ma strumenti concreti che oggi supportano i neurochirurghi nelle decisioni cliniche e negli interventi più complessi. Ne parliamo con il Dr. Christian Brogna, neurochirurgo di fama internazionale e attualmente Responsabile di Neurochirurgia presso il Paideia International Hospital di Roma, che ci guida in un viaggio tra innovazione tecnologica e umanizzazione della cura, delineando il presente e il futuro di una disciplina sempre più integrata con le potenzialità del digitale.
Come sta cambiando oggi la neurochirurgia grazie alle nuove tecnologie?
“La neurochirurgia sta vivendo una trasformazione profonda, direi quasi epocale. Non è solo questione di avere strumenti più sofisticati: è cambiata la nostra capacità di vedere, comprendere e intervenire sul cervello umano. Oggi disponiamo di imaging avanzato — come la risonanza magnetica funzionale, di perfusione o la trattografia — che ci permette di capire non solo dove si trova una lesione, ma come interagisce con le aree cerebrali responsabili del linguaggio, del movimento, della memoria.
In sala operatoria usiamo la neuronavigazione, una sorta di GPS che ci guida millimetro per millimetro. I microscopi digitali integrano la realtà aumentata e ci consentono di visualizzare margini tumorali o fasci nervosi critici in tempo reale. Inoltre, grazie al monitoraggio neurofisiologico, possiamo intervenire localizzando le funzioni cerebrali durante l’intervento chirurgico, sia esso a paziente in anestesia generale o a paziente sveglio, riducendo al minimo i rischi di danni neurologici.
Ma la tecnologia non cambia solo la parte tecnica: cambia anche il rapporto con il paziente. Oggi posso mostrargli un modello 3D del suo cervello, spiegargli l’intervento passo dopo passo. Si crea un dialogo aperto, consapevole, più umano”.
In che modo la realtà virtuale viene utilizzata nella pianificazione e formazione neurochirurgica?
“La realtà virtuale è diventata uno strumento preziosissimo, sia per noi neurochirurghi esperti sia per chi sta imparando. Oggi possiamo ricostruire il cervello del singolo paziente in 3D e, grazie alla Virtual Reality (VR), esplorarlo come se fossimo già dentro, simulando l’intervento prima di entrare in sala. Questo ci aiuta a pianificare meglio, a prevedere ostacoli, a ridurre al minimo le incognite. La VR strumentale arricchisce quella visualizzazione mentale dinamica, una sorta di VR interiore, grazie alla quale, prima di ogni intervento, nella sua immaginazione, ogni neurochirurgo già sceglie e calibra i dettagli.
Per chi si sta formando, invece, è una rivoluzione. I giovani neurochirurghi possono esercitarsi in ambienti virtuali realistici, affrontando casi complessi senza rischiare nulla sui pazienti reali. In passato, imparare significava osservare e quindi affiancare i propri mentori, oggi significa anche provare, sbagliare e correggersi in uno spazio protetto”.
L’intelligenza artificiale può davvero supportare il neurochirurgo in fase decisionale? Quali sono oggi gli esempi più concreti?
“Assolutamente sì. L’intelligenza artificiale è già parte della nostra pratica, anche se spesso il paziente non se ne accorge. Per esempio, ci sono algoritmi che analizzano in pochi secondi le immagini di risonanza magnetica o TC, identificando tumori, aneurismi, malformazioni vascolari con un’accuratezza altissima. Questo non significa sostituire il medico, ma offrirgli un secondo occhio, un’analisi profonda, una rete di sicurezza, soprattutto nei casi più complessi.
Ci sono poi software predittivi, attualmente in fase sperimentale, che ci aiutano a stimare i rischi di un intervento, a prevedere come potrebbe reagire un certo paziente, o a suggerire la strategia chirurgica meno invasiva. E durante l’intervento, alcuni sistemi stanno iniziando a fornire feedback in tempo reale su cosa stiamo vedendo e facendo. È un supporto, non una regia: la decisione resta sempre umana”.
Quali nuovi strumenti digitali o robotici stanno diventando parte della pratica quotidiana in sala operatoria?
“I robot stanno entrando progressivamente in sala, soprattutto per procedure stereotassiche come biopsie profonde o impianti di elettrodi per la chirurgia funzionale. Ma ci sono anche altre tecnologie meno visibili ma potentissime: microscopi con realtà aumentata, neuronavigazione integrata ad ecografie intraoperatorie, stampanti 3D che ci permettono di preparare modelli anatomici personalizzati.
Tutto questo non elimina il gesto manuale del chirurgo, ma lo potenzia. Abbiamo accanto una serie di alleati tecnologici che ci permettono di essere più precisi e più sicuri”.
Queste tecnologie migliorano l’accuratezza dell’intervento e riducono i rischi per il paziente? Se sì, in che modo?
“Sì, e lo vediamo ogni giorno. La precisione aumenta perché sappiamo esattamente dove siamo e cosa stiamo facendo, possiamo minimizzare l’estensione dell’approccio chirurgico, evitare strutture delicate, ridurre i tempi operatori. Il paziente beneficia di interventi meno invasivi, di recuperi più rapidi, di una minore probabilità di complicanze.
Tuttavia, è solo il neurochirurgo che può dirigere la sua operazione sulla base dei desideri e dell’unicità del paziente. La potenziale fallacia delle macchine deve essere infatti mitigata dall’intelligenza creativa dell’uomo. È per questo che il training di un neurochirurgo rimane uno dei più lungi e complessi. Perché i primi circuiti a dover essere addestrati sono i nostri, quelli del nostro cervello, le cui potenzialità sono di gran lunga superiori a quelle di qualsiasi macchina.”
Quali sono oggi i principali ostacoli all’adozione su larga scala di queste tecnologie?
“I principali ostacoli sono sicuramente economici e culturali. Queste tecnologie hanno costi altissimi, non solo di acquisto ma anche di gestione, aggiornamento, formazione. Non tutte le strutture possono permettersele, e questo crea inevitabilmente una sanità mondiale a due velocità.
C’è poi un altro aspetto: la resistenza al cambiamento. Alcuni colleghi temono che affidarsi troppo alle macchine faccia perdere il “tocco” umano, la manualità, il giudizio clinico. È una paura comprensibile, ma io credo che la sfida sia proprio integrare il meglio delle due: tecnologia e umanità. La prima al servizio della seconda”.
Come immagina la sala operatoria del futuro?
“La immagino come un ambiente dove il chirurgo resterà al centro, ma sarà circondato da strumenti intelligenti: robot assistivi, realtà aumentata integrata nel campo visivo, connessioni in tempo reale con esperti di tutto il mondo. Avremo sistemi capaci di adattare l’intervento non solo all’anatomia del paziente, ma anche ai suoi dati genetici, metabolici, clinici.
Non sarà una sala operatoria “senza uomini”, al contrario: sarà un luogo dove la tecnologia ci permetterà di essere ancora più umani, perché ci libererà di parte dello sforzo tecnico per dedicarci di più a ciò che conta: il paziente”.