Il futuro della protezione in sanità potrebbe passare da ciò che indossiamo ogni giorno. A confermarlo è l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), che il 13 giugno 2025 ha espresso parere favorevole all’impiego di tessuti trattati con nanoparticelle di ossido di zinco per realizzare divise sanitarie destinate al personale medico e assistenziale.
Una decisione attesa da tempo, che sancisce ufficialmente l’efficacia di una tecnologia già studiata a livello internazionale e che oggi si propone come arma innovativa nella lotta contro le Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA). Queste infezioni, secondo i dati del Ministero della Salute, causano ogni anno in Europa circa 37.000 decessi direttamente attribuibili e oltre 110.000 decessi nei quali l’infezione rappresenta una concausa, con un impatto economico stimato in 7 miliardi di euro solo per i costi diretti.
L’innovazione dei tessuti trattati con ossido di zinco risiede nella capacità di contrastare batteri e virus direttamente sulla superficie dell’indumento. I test hanno dimostrato un’attività antivirale definita «eccellente» (riduzione logaritmica >3) contro virus influenzali e calicivirus felino, e un’attività antibatterica «molto significativa» (riduzione >5) contro patogeni come Staphylococcus aureus e Klebsiella pneumoniae, secondo gli standard ISO 18184:2019 e EN ISO 20743:2013.
Un segnale chiaro anche per il legislatore. Già nel gennaio 2025 l’INAIL, in un documento dedicato alle aree critiche ospedaliere, aveva sottolineato la necessità che le divise del personale sanitario vengano considerate Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), con requisiti tecnici in grado di minimizzare l’esposizione ad agenti infettivi. Il Decreto Legislativo 81/2008 stabilisce infatti l’obbligo per il datore di lavoro di aggiornare costantemente le misure di prevenzione alla luce dei progressi tecnologici, per garantire la massima sicurezza degli operatori.
In questo scenario si inserisce il progetto tutto italiano sviluppato da LCM Group – DPI Division, in collaborazione con Erreà, che ha dato vita alle prime divise sanitarie riutilizzabili fino a 100 lavaggi, certificate per efficacia antivirale e antibatterica. Questi capi non sono semplici indumenti, ma veri e propri DPI: idrorepellenti, anallergici e in grado di ridurre la dispersione di particelle, come indicano le prove di laboratorio effettuate dall’Università Vita-Salute San Raffaele.
Ma non è solo una questione di sicurezza sanitaria. I tessuti Ti-Energy® sviluppati da Erreà e LCM offrono anche vantaggi ambientali ed economici: +65% di ciclo di vita del prodotto, -35% di tempi di asciugatura e assenza di scarto per macchie, con performance certificate OEKO-TEX® Standard 100 e dispositivi testati per oltre 100 lavaggi industriali.
L’adozione di questi dispositivi potrebbe contribuire non solo a ridurre il rischio di ICA, ma anche a generare risparmi significativi. Si stima infatti che il costo di un’infezione causata da microrganismi multiresistenti vari da 8.500 a 34.000 euro e che le ICA nel loro complesso possano arrivare a incidere fino al 6% sul budget annuo degli ospedali pubblici italiani.
Dopo il parere favorevole dell’ISS e le indicazioni normative dell’INAIL, la palla passa ora alle Regioni e alle singole strutture sanitarie, chiamate a integrare nei capitolati di gara e nei protocolli interni dispositivi più innovativi, come le divise antimicrobiche. Il rischio biologico non può più essere considerato un rischio «ordinario» in sanità, e i DPI evoluti diventano un alleato imprescindibile, non solo per tutelare gli operatori sanitari, ma anche per proteggere la salute dei pazienti e per garantire la sostenibilità economica del sistema.
La convergenza tra ricerca, industria e politica, in questo caso, è già un fatto. Resta da vedere se il Sistema Sanitario saprà cogliere l’opportunità e tradurre questa innovazione in una protezione concreta, quotidiana e sistemica.